Un paio di settimane fa è uscito sul nostro blog un articolo intitolato “Investire in obbligazioni: mini-guida anticonformista per il 2023” che trattava del tema degli investimenti obbligazionari e di come utilizzarli al meglio all’interno di un portafoglio di investimento.
In quell’articolo si portava avanti la tesi secondo cui (semplificando al massimo) le obbligazioni societarie non offrono in genere un profilo di rendimento adeguato a fronte del rischio richiesto.
Qui vediamo invece due casi pratici di obbligazioni in cui la tesi esposta precedentemente trova una perfetta applicazione, anche se a prima vista potrebbe non sembrare.
Il settore degli investimenti obbligazionari è un terreno ottimale per mettere in campo prodotti d’investimento complessi ed offrire soluzioni, solo all’apparenza, molto remunerative; è bene però ricordare sempre l’universale ed ineluttabile regola d’oro della finanza: “se rende di più deve necessariamente essere più rischioso”.
Quindi se un rendimento è “troppo buono per essere vero” molto probabilmente… non è vero! Le ipotesi sono due: 1) in realtà non è poi così buono oppure 2) è commisurato al rischio che ci si sta per accollare.
Unicredit Spa Mc Oct33 Eur (ISIN IT0005567273): il “cedolone” per le allodole
La prima tipologia di obbligazioni che ho analizzato è a tasso misto cioè un mix di obbligazione a tasso fisso e tasso variabile con durata decennale.
In questo caso il tasso fisso annuo dichiarato è pari al 7,25% lordo pagato trimestralmente, ma solo per i primi 3 anni dopodiché il tasso diventa variabile e pari all’euribor a 3 mesi al quale non viene applicato nessuno spread.
Per valutare questo genere di obbligazione, bisogna prima comprendere la differenza fra obbligazioni a tasso fisso ed obbligazioni a tasso variabile.
Entrambe le soluzioni hanno ovviamente pro e contro. Semplificando al massimo il concetto, le obbligazioni a tasso fisso sono ottime in un contesto di tassi in calo perché consentono di ricevere un flusso cedolare ad alto rendimento mentre sul mercato si trovano rendimenti più bassi e quindi il prezzo di queste obbligazioni tende a salire in modo inversamente proporzionale ai tassi.
Al contrario, un’obbligazione a tasso variabile protegge un investitore in caso di aumento dei tassi perché si “adatta” alla nuova situazione aumentando il rendimento da cedola. Al variare dei tassi, il prezzo di un’obbligazione a tasso variabile tende a rimanere stabile (tecnicamente si dice che ha una duration pari a zero). In un portafoglio di investimento dovrebbero essere presenti entrambi le tipologie, ma in quale misura dipende da tanti fattori fra quali l’orizzonte temporale ed il contesto attuale al momento dell’acquisto.
Quando ci si avvicina ai mercati finanziari è bene sempre conoscere le caratteristiche peculiari di ogni strumento d’investimento che si decide di inserire nel proprio portafoglio sia per capirne il comportamento come singolo strumento sia per valutarne l’interazione con gli altri strumenti presenti.
Questo è vero sia che si decida di farsi affiancare ad un consulente ma anche e soprattutto se si decide di fare da soli perché il mercato dei prodotti finanziari è talmente vasto e l’abilità degli emittenti così raffinata da riuscire ad ingolosire i risparmiatori con novità all’apparenza molto interessanti ma alla fine deludenti.
Compreso questo, torniamo alla struttura delle obbligazioni Unicredit. Il problema di questa obbligazione non sta certo nel fatto che durante la vita dell’obbligazione il tasso passa da tasso fisso a variabile. Questo potrebbe essere perfino utile e positivo in un contesto di tassi piuttosto alti che potrebbero scendere durante la vita dell’obbligazione.
Qui il problema sta nel fatto che l’emittente ha voluto proporre una cedola molto attraente all’inizio, ben il 7,25%, ma solo per i primi 3 anni, per poi dare una cedola non adeguata al suo profilo di rischio nei successivi 7 anni. Per fare un esempio il CCTeu, cioè il titolo di stato dell’Italia variabile collegato all’euribor paga una cedola collegata sì all’Euribor ma con un’aggiunta (in finanza si chiama spread che va da un minimo dello 0,50% (nel caso del CCTeu 15/10/20-04/26 – IT0005428617) ad un massimo dell’ 1,15% nel caso dell’ultimo CCT emesso ad aprile di quest’anno ( CCTeu 15/04/23-15/10/31 – IT0005554982 ). Se l’Italia offre uno spread pari all’1,15% all’anno sul tasso variabile, tanto più dovrà offrire una banca italiana (per quanto grande ed affidabile come Unicredit) per essere in linea con il mercato. Ricordiamo, fra l’altro, che sui titoli di stato si paga una tassazione del 12,5%, mentre sui titoli corporate si paga una tassazione del 26%!
Quindi, Unicredit alletta i risparmiatori con le prime tre cedole molto attraenti, ma dopo questa apparente “cuccagna” i risparmiatori si troveranno con un titolo che paga molto di meno di quello che dovrebbe e quindi il prezzo del titolo sarà molto più basso del suo valore nominale.
Questa obbligazione, quindi, fa leva sull’ignoranza dell’investitore che non sa valutare lo spread corretto per il tasso variabile.
Societè Generale Cum 6.50% 08/38 (XS2627680825): il “cedolone” ritardato
La seconda tipologia di obbligazione che ho esaminato è un misto tra un’obbligazione a tasso fisso ed una a zero coupon (cioè quelle obbligazioni come i BOT o i CTZ che non pagano alcuna cedola, ma rimborsano a scadenza una somma più alta rispetto a quella di acquisto) dove sono stati inseriti gli aspetti peggiori di entrambe le soluzioni.
Come nelle obbligazioni a tasso fisso il flusso cedolare è noto da subito al momento dell’acquisto, nel caso dell’obbligazione XS2627680825 di Societè Generale è pari al 6,50% annuo con durata 15 anni. A prima vista potrebbe sembrare un tasso cedolare molto buono, sicuramente più alto delle obbligazioni similari. Poi leggendo bene il regolamento si scoprono altre caratteristiche: la prima è che è soggetta al meccanismo “callable” cioè l’obbligazione può essere richiamata dall’emittente in alcune date specifiche a loro totale discrezione e quindi la durata potrebbe essere inferiore. Inoltre le cedole sono solo “potenziali” perché infatti non vengono pagate annualmente ma solo a scadenza (o al momento del rimborso anticipato) in maniera cumulativa (il che fa assomigliare l’obbligazione ad uno zero coupon). Il “finto” cedolone non pagato non viene certo capitalizzato è solo nominale.
Mettendo insieme queste 2 caratteristiche si scopre che il tasso sbandierato del 6,50% è possibile ottenerlo solo ed esclusivamente nel caso in cui l’obbligazione venga rimborsata anticipatamente dopo appena un anno dall’emissione; in tutti gli altri casi, la mancata capitalizzazione degli interessi comporta in realtà un rendimento effettivo a scadenza che decresce col passare degli anni come riportato nell’immagine seguente:
inoltre se l’obbligazione viene portata a scadenza naturale dopo 15 anni il suo effettivo rendimento è un ben più misero 4,60% lordo come si vede qui sotto:
Note queste caratteristiche, proviamo adesso a pensare agli eventuali scenari di sviluppo della vita di questa obbligazione a seconda di cosa succede ai tassi d’interesse di riferimento.
- Ipotizziamo che i tassi di riferimento crescano: il prezzo di questa obbligazione scenderà come è ovvio che sia, l’emittente non avrà alcun beneficio ad effettuare il rimborso anticipato e quindi ci si ritroverà con il capitale impiegato in una obbligazione di 15 anni in un contesto in cui i rendimenti sono saliti e senza la possibilità di reinvestire le cedole (che vengono pagate solo alla fine) a tassi più alti.
- Se invece ipotizziamo che i tassi scendano in maniera considerevole (sotto il 4,6% di rendimento a scadenza) allora il rimborso anticipato diventa più probabile perché l’emittente potrebbe re-indebitarsi ad un tasso di interesse più basso e quindi sicuramente attuerà la clausola callable dell’obbligazione in questo caso il risparmiatore si ritroverà ad avere di nuovo il capitale a disposizione ma lo potrà reinvestire solo con tassi di rendimento più bassi senza riuscire a giovare dei 15 anni di durata dell’obbligazione.
Se infine i tassi di riferimento dovessero rimanere stabili o scendere lievemente, sembra plausibile che l’obbligazione venga portata a naturale scadenza fornendo così un tasso di rendimento effettivo a scadenza lordo che come detto è pari al 4,60% che con una tassazione al 26% è pari ad un tasso netto del 3,40%. Da notare che un’obbligazione governativa italiana di pari durata (ad esempio il Btp 01Mz38 con cedola del 3,25%) rende ad oggi il 4,96% netto mentre un’obbligazione bancaria a tasso fisso di pari durata rende in media 4,55% lordo, ma senza la possibilità che venga rimborsata in anticipo. Quindi, in sintesi, non esiste uno scenario favorevole per l’investitore.
Conclusioni
Questi due esempi, a primo impatto potrebbero sembrare obbligazioni allettanti ma, alla luce di quanto detto, vale sempre il vecchio adagio: “In finanza non esistono pasti gratis“.
È importante inoltre considerare il momento concitato che condiziona il mercato bancario sia azionario che obbligazionario, con possibili incrementi dei tassi di interesse delle obbligazioni bancarie e quindi probabili perdite in conto capitale.
La domanda sorge spontanea, ma in effetti è sempre la stessa: piuttosto che passare da un asset a un altro sostenendo rischi di svariata natura, non sarebbe più razionale costruire un portafoglio ben bilanciato e diversificato che prescinda dalle mode e dai momenti di mercato e rispetti la nostra asset allocation strategica per obiettivi?