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Azionario sopravvalutato: che fare? – parte 2

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Tempo di lettura: 8 minuti

Non tutto ciò che è contabile conta, 

e non tutto ciò che conta è contabile

Albert Einstein

 

“Il prezzo è ciò che paghi. 

Il valore è ciò che ottieni.” 

Warren Buffett

 

“Al giorno d’oggi la gente conosce 

il prezzo di tutto e il valore di niente.” 

Oscar Wilde

Questo secondo articolo della serie sarà un po’ più tecnico, anche se intendiamo rimanere su un piano molto divulgativo. Approfondiremo come valutare se i prezzi delle azioni, nel loro complesso, sono sopravvalutati o meno. Non parleremo della valutazione di singole azioni (perché il discorso sarebbe ancora più complesso e interesserebbe un pubblico molto più ristretto), ma ci concentreremo sulla valutazione degli indici azionari. In particolare, ci riferiremo al mercato delle azioni a grande capitalizzazione negli USA, dato che è di gran lunga il mercato più importante e ha un peso determinante nelle azioni mondiali.

Cercheremo di rispondere alla domanda: le azioni USA a larga capitalizzazione, oggi, sono sopravvalutate?

Come spesso facciamo, iniziamo con il definire i concetti. Cosa intendiamo per “sopravvalutate”? Dire che un titolo è sopravvalutato non significa automaticamente dire che il prezzo delle azioni sia destinato a scendere, come vedremo meglio in seguito. Il concetto di “sopravvalutazione” è strettamente connesso a quello di “valore”. Il valore è, per sua natura, un concetto soggettivo. La stessa azienda può avere un certo valore secondo la valutazione di una persona e un valore significativamente diverso per un’altra persona che applica criteri diversi. Il prezzo, invece, in un dato momento è un fatto non opinabile, poiché deriva da una compravendita effettivamente eseguita a quel prezzo. Le azioni sono sopravvalutate se il prezzo è superiore rispetto a una valutazione necessariamente soggettiva.

Per rispondere alla domanda centrale di questo articolo, dobbiamo prima rispondere alla domanda: quanto valgono le azioni?

Cosa determina il valore e il prezzo delle azioni?

Il valore delle aziende deriva dal fatto che queste producono utili; quindi, il valore attuale delle aziende non è altro che una stima e una elaborazione (tecnicamente si dice uno “sconto” a un certo tasso) degli utili futuri. È veramente così semplice. È tutto qui.

Ma come si stima l’importo degli utili futuri? È impossibile farlo con precisione, poiché il futuro è imprevedibile. Ci sono molti fattori che incidono sugli utili futuri di un complesso di azioni. I principali sono: la crescita economica, i tassi d’interesse e le politiche fiscali. Questi fattori sono intrecciati fra di loro e si influenzano vicendevolmente.

L’indicatore più utilizzato per valutare se le azioni sono sopravvalutate è il rapporto tra il prezzo e gli utili (da ora in poi lo indicheremo con “P/E”, perché “utili” in inglese si dice earnings). Più questo rapporto è alto, più potremmo dire (col condizionale) che l’indice azionario potrebbe essere caro rispetto a uno con un P/E più basso. Ma di quali utili stiamo parlando? Alcuni, sbagliando, utilizzano gli utili dell’ultimo anno. In genere, gli analisti utilizzano gli utili attesi del prossimo anno (viene chiamato “forward P/E”). La differenza non è poca, perché normalmente, in contesti di crescita economica, gli utili crescono e quindi il P/E sugli utili attuali è in genere più elevato del forward P/E.

Il tema della crescita degli utili è l’aspetto centrale nella valutazione di un indice azionario. Un P/E più elevato può essere giustificato se le aspettative di crescita degli utili per i prossimi anni sono molto elevate rispetto a un indice azionario che ha un P/E più basso, ma anche utili che crescono molto meno (o addirittura che decrescono!).

L’aspetto chiave da comprendere, quindi, è che qualsiasi valutazione si possa fare oggi, si farà sempre su numeri che riguardano il passato o su stime, per loro natura aleatorie, sul futuro. La componente chiave che determinerà il valore futuro (non necessariamente il prezzo) delle azioni che compriamo oggi sarà il tasso di crescita degli utili nei prossimi anni. Il valore presente delle azioni oggi è dato dall’importo e dal tasso di crescita degli utili passati.

Il prezzo attuale, invece, è dato da una combinazione di tantissimi fattori, impossibili da valutare tutti con precisione. In primo luogo, c’è un aspetto materiale che determina il prezzo: il rapporto fra la quantità di azioni che gli operatori vogliono comprare e la quantità di azioni che vogliono vendere. Ovviamente, se prevalgono i compratori, il prezzo sale, e viceversa. Può apparire una banalità, ma questo ci dice che la variazione della quantità di liquidità in circolazione determina la variazione del prezzo, anche a parità di tutti gli altri fattori.

Un altro fattore determinante è la narrativa prevalente rispetto alla crescita futura degli utili. Se gli operatori si aspettano una crescita elevata, come nel caso delle aziende nel settore dell’intelligenza artificiale, allora più persone vorranno comprare quelle azioni e i prezzi saliranno, e viceversa. Un terzo fattore importante sono i tassi d’interesse, ovvero l’alternativa all’investimento azionario. Più i tassi d’interesse sono alti, più gli investitori applicheranno un tasso di sconto elevato sugli utili futuri e tenderanno a preferire le obbligazioni alle azioni. A parità di narrativa sugli utili futuri, quindi, se i tassi d’interesse sono elevati, i prezzi saranno inferiori, e viceversa. Questo significa che, quando vediamo – come faremo in seguito – l’andamento storico e attuale di indicatori come i P/E, dobbiamo capire che le comparazioni storiche sono in parte falsate dal diverso regime dei tassi d’interesse che si è succeduto nei vari periodi storici. Quando vediamo il P/E che c’era, ad esempio, nel 1990, questo non è immediatamente confrontabile con il P/E che c’era nel 2010, perché c’erano tassi d’interesse significativamente diversi.
Un quarto fattore è il sentiment degli investitori sui prezzi futuri delle azioni. Un gruppo importante di investitori compra azioni non sulla base del loro valore, ma solo per le aspettative di movimento del prezzo futuro (ad esempio i trader automatici). I prezzi seguono una tendenza che, a un certo punto, si inverte; tuttavia, fino a quando la tendenza persiste, i prezzi – in parte – si muovono a prescindere da qualsiasi considerazione legata al valore.

Il CAPE di Shiller

Abbiamo scritto che il valore presente di un indice azionario deriva dagli utili passati e dal tasso di crescita di questi utili. Il problema degli utili è che il tasso di crescita tende a essere ciclico, poiché la crescita economica attraversa fasi di espansione e di contrazione. Per attenuare questo problema, il famoso economista e Premio Nobel Robert Shiller, nel 2000, ha proposto un modo di valutare gli indici azionari definito CAPE, una sigla che indica il rapporto prezzo-utili aggiustato per il ciclo. In sintesi, si tratta di fare una media degli utili, rivalutati per l’inflazione, degli ultimi 10 anni.

Non bisogna fare l’errore di confrontare il valore del CAPE con il valore del P/E classico o del forward P/E. È normale che il CAPE, per sua natura, tenda a essere più elevato del P/E e ancor di più del forward P/E. Il pregio del CAPE è che tende a essere meno influenzato dal ciclo. Nel 2018, Shiller ha proposto una revisione del suo indicatore che tiene conto di alcuni aspetti tecnici legati al fenomeno sempre più diffuso dell’uso dei buyback come prevalente forma di ridistribuzione degli utili. Tutti i dati da lui utilizzati per il mercato americano sono pubblicati nella sua pagina all’indirizzo: https://shillerdata.com/. 

Il seguente grafico, tratto dal sito www.currentmarketvaluation.com, mostra l’andamento di questo indicatore applicando il concetto di quante “deviazioni standard” siamo sopra la media storica.

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La media storica del CAPE di Shiller applicato allo S&P500 è di circa 20. A fine settembre 2024 eravamo a circa 36,5. Con i valori attuali siamo sopra i 38 punti, quindi ben oltre le due deviazioni standard. Più che il valore in sé, è interessante osservare a che distanza si trovi il valore attuale dalla sua media storica, in rapporto all’ampiezza normale delle oscillazioni che storicamente ha fatto. A questo scopo utilizziamo il concetto di “deviazione standard”. Quando l’indice si muove all’interno di una deviazione standard dalla sua media, si può dire che le azioni siano normalmente valutate. Quando inizia a superare una deviazione standard, si può dire che siano sopravvalutate o sottovalutate. Se supera due volte la deviazione standard, iniziamo a entrare in una zona di eccesso di sopra o sottovalutazione. È ragionevole attendersi che questi eccessi siano corretti in tempi relativamente brevi.

Ricordo ancora una volta che il CAPE di Shiller non tiene in considerazione il diverso regime dei tassi d’interesse. Quindi non è del tutto corretto confrontare, ad esempio, i valori degli anni ’80, quando il rendimento del decennale americano ha toccato anche il 15%, con i valori degli anni ’10, quando il decennale è stato anche sotto al 2%. Di conseguenza, anche il valore medio e la relativa distanza dalla media devono essere contestualizzati per il valore attuale dei tassi d’interesse. Non c’è dubbio, però, che quando questa distanza si fa molto grande, sicuramente c’è un campanello d’allarme che deve essere considerato.

Altri indicatori

Un indicatore molto più “grossolano” di valutazione del prezzo delle azioni è il rapporto fra il valore complessivo delle azioni scambiate nelle borse USA e il prodotto interno lordo degli USA. Questo rapporto è chiamato Buffett indicator, perché si dice che il famoso investitore Warren Buffett abbia affermato che questo indicatore sarebbe “the best single measure of where valuations stand at any given moment”. In realtà, Buffett ha sempre messo in guardia dall’utilizzare qualsiasi singolo indicatore come criterio di valutazione valido in ogni circostanza. Ha sempre insegnato che è necessario utilizzare una combinazione di indicatori e che questi devono essere adattati alle circostanze. Ciò nonostante, la stampa continua a utilizzare impropriamente questo indicatore con il nome di Buffett, e questo lo rende necessario da trattare in un articolo come questo.

L’unico vero pregio di questo indicatore è l’estrema semplicità; per il resto è pieno di problemi. Il principale è che il prodotto interno lordo USA è solo parzialmente connesso al fatturato (e quindi agli utili) delle aziende quotate negli USA, poiché le aziende USA esportano in tutto il mondo. Dagli anni ’50 in poi, la globalizzazione ha fatto sì che una parte sempre crescente del fatturato delle grandi aziende quotate negli USA sia connessa al prodotto interno lordo di altre nazioni. Pur con questa importante criticità, comunque, questo indicatore è coerente con quello di Shiller. Lo possiamo vedere nel seguente grafico.

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Anche in questo caso siamo oltre le due deviazioni standard.

Un altro indicatore per valutare la sopra o sottovalutazione del mercato azionario è il Q Ratio. Si tratta di un indicatore sviluppato dal Premio Nobel James Tobin, calcolato dividendo il prezzo totale del mercato per il costo di sostituzione di tutte le aziende che lo compongono. Questo rapporto fornisce un’indicazione su quanto il mercato sia sopravvalutato o sottovalutato rispetto al valore reale delle sue attività sottostanti. Non entrerò nei dettagli tecnici, poiché sarebbe troppo complesso per un articolo divulgativo. Teoricamente, un Q ratio pari a 1 rappresenterebbe il punto di equilibrio, ma nella pratica questo valore non è comune. Ad esempio, il valore medio aritmetico del Q ratio è di circa 0,83, mentre i livelli estremi registrati includono un massimo storico di 1,80 e un minimo di 0,29. Il Q ratio viene utilizzato principalmente per analisi di lungo termine, dato che i dati necessari per calcolarlo provengono da fonti come il rapporto trimestrale Z.1 Financial Accounts della Federal Reserve, che ovviamente sono in ritardo.

Riportiamo il grafico tratto dal sito www.advisorperspectives.com che mostra, ancora una volta, come siamo a livelli di valutazione ben superiori a due deviazioni standard e abbiamo superato i livelli massimi di sempre.

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Dobbiamo attenderci un crollo imminente?

Dagli indicatori che abbiamo visto, non c’è alcun dubbio sul fatto che le azioni USA, in particolare quelle a larga capitalizzazione, in queste settimane stiano abbandonando una zona che poteva essere definita di normale sopravvalutazione per entrare in un territorio di forte sopravvalutazione.

Questo non significa che dobbiamo attenderci necessariamente un imminente crollo delle azioni. Il movimento di breve termine delle azioni non è in nessun modo prevedibile. Un periodo di forte sopravvalutazione può tramutarsi, come accadde nel 1999 fino al primo trimestre del 2000, in un periodo di “euforia irrazionale”. Oppure potrebbe sgonfiarsi più lentamente, con una serie di correzioni alternate a periodi di ripresa. In astratto, le valutazioni potrebbero correggersi anche grazie a grandi incrementi di produttività, magari legati all’uso delle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale. Questa potrebbe essere la “scommessa” (azzardata?) del mercato.

Una cosa è certa. È vero che – come ho scritto molte volte –  le fasi di crescita dei mercati azionari sono “processi” che durano in genere anni, non sono un “evento”, come le fasi di crollo, che durano da pochi mesi a un massimo di un paio d’anni. Tuttavia, le fasi di forte sopravvalutazione non possono durare molti anni. Anch’esse sono “eventi” che possono durare da qualche mese fino a un massimo di un paio d’anni. La sopravvalutazione può rientrare in modo “traumatico” o meno, questo non possiamo dirlo. Più a lungo dura,  maggiori sono i picchi che raggiunge, più è probabile che il rientro sia traumatico.

Nel prossimo articolo esploreremo più nel dettaglio le implicazioni pratiche, per varie tipologie di investitori, di questa condizione di forte sopravvalutazione delle azioni USA (che rappresentano oltre il 50% delle azioni mondiali) nelle scelte di allocazione dei portafogli finanziari.

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